Dall’Emilia alla Maddalena

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MAMME CONTRO LA CHIUSURA DEI PUNTI NASCITA

Protestano le donne costrette a fare molti chilometri per raggiungere

il Punto Nascita più vicino

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da TISCALI – Da una parte l’esigenza di razionalizzare spese e risorse, dall’altra quella di non essere costrette a fare tanti chilometri per mettere al mondo la propria creatura. È una vera e propria battaglia quella che vede sui due fronti le mamme di provincia e il ministero della Salute con la sua regola che i punti nascita con meno di 500 parti all’anno debbano chiudere. La Regione interessata può chiedere una deroga in caso di particolari condizioni geografiche ma deve in ogni caso garantire certi standard di sicurezza.

I motivi delle chiusure

Ed è proprio un problema di sicurezza quello che sta dietro l’intenzione del ministero della Salute di chiudere i molti punti nascita italiani con meno di 500 parti all’anno. Lo sostiene lo studio Comitato percorso nascite nazionale che contiene un mini-dossier per ciascuna regione. Lo scopo ministeriale è quello di superare le resistenze alle chiusure soprattutto nelle comunità più piccole e nei territori disagiati. Solo una questione di costi e tagli alla Sanità? Il problema, scrive il quotidiano La Repubblica, è la necessità di dare le massime garanzie per la salute delle donne e dei bambini, cosa difficile in strutture sottodimensionate che non possono garantire ostetriche, ginecologi, pediatri ed anestesisti presenti 24 ore su 24. A dimostrarlo, dice lo studio, i dati sulla sicurezza in sala parto.

Le madri in protesta

Le voci di protesta si levano alte dalle Alpi agli Appennini, passando per le isole. A Borgo Val di Taro, in provincia di Parma, i cittadini sono scesi in piazza contro la chiusura del loro punto nascita da meno di 120 parti all’anno, quindi ben al di sotto dello standard minimo richiesto da ministero e Oms (Organizzazione mondiale della sanità), e la Regione Emilia Romagna però chiederà la deroga. Non andrà così invece a La Maddalena dove vengono al mondo appena 50 bambini all’anno. Le mamme non vogliono perdere la loro sala parto e sostengono sia trappo scomodo e pericoloso dover prendere il traghetto per andare a partorire ad Olbia. Ma l’assessore alla Sanità Luigi Arru non ha alcuna intenzione di chiedere deroghe, per le emergenze c’è l’elisoccorso: “Prima di tutto voglio tutelare la sicurezza di donne e bambini”, dice a Repubblica.

Regioni inadempienti

Anche in Sicilia ci sono stati duri scontri per la sala parto di Bronte (Catania) con richieste di deroga da parte della regione accolte solo in parte. C’è un altro caso in provincia di Trento, a Cavalese, dove alla fine si è arrivati alla chiusura pur fra mille polemiche. Le Regioni che non si adeguano alla regole dei 500 parti minimi all’anno non possono essere obbligate a chiudere i punti nascita ma posso essere dichiarate inadempienti rispetto ai Livelli essenziali di assistenza (Lea), il che comporta delle penalizzazioni di carattere economico.

I dati

Nel 2010 in Italia c’erano 581 punti nascita 168 dei quali con meno di 500 parti all’anno, nel 2016 sono calati a circa 460 e sono rimasti meno di un centinaio di punti nascita sottodimensionati.

I tagli ci sono stati e sono stati soprattutto al Sud:

  • Si va dai 22 punti nascita chiusi della Campania;
  • Ai 9 di Puglia e Calabria.
  • Ma anche la Lombardia e la Toscana hanno visto chiudere 9 sale parto.

Nello stesso periodo però i parti sono scesi da 561 a 474 mila per il calo delle nascite che in Italia è costante e quindi servono meno centri. Insomma, come dice Alessandra Kustermann, responsabile del pronto soccorso ostetrico della Mangiagalli di Milano: “Oggi si fanno meno figli e si può partorire un po’ più lontano da casa ma in maggiore sicurezza. Basta che l’ospedale sia entro un’ora di distanza da dove vive la donna. Del resto la maggior parte delle madri ci impiega 10-12 ore a fare un figlio. La cosa importante è che ci sia un buon sistema di emergenza in grado di portare velocemente la donna al più vicino ospedale”.

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